2008

PRIMO CONVEGNO "Raccontami, Uva..." 
VINO, STORIA E ARTE
ALL'ANTICA CHIESA DI SAN GIORGIO

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GIULIANA ANDREOTTI


Professoressa di GEOGRAFIA E ARCHITETTURA DEL PAESAGGIO


Università di Trento


Il recupero di un gioiello dell’arte sacra,
occasione per parlare della Valle di Cembra

La Chiesa di San Giorgio

La Chiesa di San Giorgio, a Giovo in Valle di Cembra, offre la possibilità di scoprire un angolo di pura poesia. Ma concede anche l’opportunità di parlare del contesto ambientale e paesaggistico.
L’edificio dalle linee gotiche appartiene al romitorio da cui si diparte il “sentiero della rosa” che conduce al sito del Castello della Rosa o Castello di Giovo. L’eremo presenta un’architettura che è stata recuperata con notevole impegno e, allo stesso tempo, con la consapevolezza di salvaguardare un importante elemento del paesaggio.
La costruzione è uno degli innumerevoli segni minori del paesaggio, non chiassosi ed evidenti, come potrebbero essere una grande cattedrale o un grande monumento, ma più modesti e discreti, che però vanno assolutamente tutelati perché sono quelli che rischiano di perdersi col tempo, se non si sanno riconoscere.
Il manufatto è un gioiello dell’arte sacra, custodito da una valle portatrice di un intenso fascino per gli aspetti che la differenziano dalle valli che stanno a monte, Fiemme e Fassa. Queste sono certo valli più spettacolari per via della plastica spaziale che impone volumi dalle forme grandiose e dai nomi risonanti.

L’ambiente cembrano

La Valle di Cembra, al contrario dei tratti superiori della Vallata dell’Avisio, ha un potenziale di seduzione che non è immediato: si scopre – e si lascia scoprire – poco a poco, frequentandola e fermandosi a osservarla attentamente, cogliendo quegli aspetti che magari non sono subito evidenti.
Dal punto di vista geografico la Valle di Cembra può essere definita un paradosso perché, nonostante sia il tratto inferiore dell’incisione fluviale aperta dal torrente Avisio, non rappresenta, come accade nella maggior parte dei casi, la parte più evoluta dell’intero solco vallivo.
Infatti accade spesso che gli sbocchi delle valli siano i più sviluppati e dinamici perché facilmente accessibili dalle strutture di comunicazione e adatti ad accogliere, in siti climaticamente favoriti e meglio raggiungibili, attività agricole, commerciali e industriali.
La Valle di Cembra sconvolge questo schema in quanto nel corso della storia è sempre stata un’area – e lo è stata fino agli anni Novanta – tra le più periferiche e marginali rispetto ai tronchi vallivi che stanno a monte più vitali e produttivi.
Occorre perciò andare a ricercare le cause della marginalità di cui la valle ha sofferto e le peculiarità che hanno plasmato il suo passato dal punto di vista ambientale, storico e culturale.

La Valle di Cembra presenta un ambiente fisico caratteristico che dal punto di vista geografico può essere addirittura considerato un laboratorio.
Ma proprio tale ambiente, suggestivo nella sua particolarità, ha causato il ritardo di cui la valle ha sofferto.
La formazione valliva è di tipo fluvioglaciale nel senso che essa è stata, in un primo momento, esarata, erosa dall’azione glaciale che ha scavato il fondovalle würmiano modellandolo a “U” o a truogolo.
Questa vallata, in un secondo momento, dopo le glaciazioni quaternarie, è stata sovraescavata dal torrente Avisio che l’ha approfondita poiché era necessario un raccordo del torrente col fondovalle, in quanto il solco era rimasto pensile sulla valle dell’Adige, più profondamente incisa dal potente ghiacciaio che vi confluiva.
Per tale motivo il corso dell’Avisio ha dovuto aprirsi con forza la strada per raccordarsi con il fiume Adige, di cui è affluente, e il risultato è quello che vediamo oggi: una valle fluviale al fondo, con i versanti molto ravvicinati che formano una vera e propria forra, una gola. Le sponde s’allargano verso l’alto, ospitando i terrazzi, residui dell’antico fondovalle würmiano.
L’uomo, insediandosi in quest’ambiente, è stato costretto a misurarsi con i numerosi vincoli presentati dalla morfologia alle funzioni abitative, produttive e relative alla viabilità.
In particolar modo il sistema viario, gravemente penalizzato, non ha consentito, in passato, la realizzazione di infrastrutture adeguate alle attività produttive.
La mancanza di strutture di comunicazione – che negli ultimi anni hanno dinamizzato e fatto evolvere il territorio – in passato ha gettato la valle in una condizione di profondo isolamento. Tale condizione è stata accentuata dalla scelta relativa alla linea ferroviaria che doveva congiungere il fondovalle atesino con le Valli dell’Avisio: la decisione di realizzare la linea Ora-Predazzo ha escluso la Valle di Cembra che è stata tagliata fuori dalle correnti di traffico e produttive.
La valle presenta altri aspetti fisici particolarmente interessanti: quelli che ne fanno, come detto, un vero laboratorio.
Le tracce delle glaciazioni, ad esempio, non sopravvivono solo nei lembi di terrazzo su cui sono adagiati gli abitati. La stessa morfologia dei rilievi presenta forme arrotondate e non aguzze perché i ghiacciai hanno smussato le cime montuose. I materiali erosi sono stati abbandonati in estese morene e in banchi loessici, come quello tra Verla e Faver che ha la potenza di una ventina di metri.
Inoltre, sul versante sinistro nella zona di Lona-Lases, appaiono bombe vulcaniche. Si tratta di frammenti di magma vulcanico, esplosi dagli antichi vulcani che hanno formato la piattaforma porfirica, il basamento della valle. Infatti, la valle è insolcata entro il porfido, formatosi circa tra i 260 e 230 milioni di anni fa in un’era geologica lontanissima, ultimo periodo dell’era primaria.
I brandelli di lava, scagliati nell’aria, a causa della rotazione assumono una forma tondeggiante con dimensioni da pochi centimetri a qualche metro di diametro. Bombe vulcaniche sono visibili lungo la strada provinciale n. 71 della sponda sinistra.
Un peculiare aspetto riguarda i depositi morenici ossia le morene lasciate dai ghiacciai che hanno riempito le valli del Rio Regnana e del Rio Brusago, in sponda sinistra, con spessori fino a 40 metri. In questi depositi le acque meteoriche e di dilavamento, alternate a periodi di siccità, hanno creato le famose forme per cui la valle è nota: le Piramidi di Segonzano, localmente chiamate anche ”Omeni de Segonzan”.
Si tratta di strordinari fenomeni naturali che contribuiscono a fare della valle una realtà espressiva.


Gli abitati

Gli abitati sono concentrati maggiormente sulla sponda destra. Sono di modeste dimensioni e si dispongono a mezza costa, situati sui lembi terrazzati del paleoalveo.
Il versante destro è quello a solatìo, maggiormente esposto al sole e, di conseguenza, con un clima migliore. Per questo anche la strada sulla sponda destra è più antica ed è stata più frequentata rispetto all’altra, sulla sponda sinistra, completata solo nel 1956.
La sponda sinistra, essendo a bacìo, è più fredda e umida, quindi meno favorita dal punto di vista climatico.
Le soluzioni abitative si caratterizzano per l’originalità. Le abitazioni si assemblano in quelli che vengono chiamati “cormei” o “quartieri”.
Le case si uniscono una all’altra in complessi serrati e compatti. La scelta è stata dettata da molteplici motivi. In primo luogo quello di non sprecare terreno coltivabile: nell’area è sempre è esistita fame di spazio, estremamente prezioso per l’agricoltura. In secondo luogo si voleva risparmiare sui materiali costruttivi, pietre, legno e calcina: se si poteva sfruttare un muro già esistente, si abbattevano i costi di costruzione. Inoltre le decisioni possono essere ricondotte a ragioni difensive e sociali: trovare sostegno e protezione e creare vicinanza nelle comunità.
Prima di tutto è, però, da considerare l’elemento ambientale che ha influito su queste particolari forme costruttive, oggi molto suggestive.
Entrando nei particolari, possiamo osservare che molte case hanno uno zoccolo che fornisce solidità al manufatto. La robustezza della base agisce da contrafforte per resistere alla dinamica della mezzacosta su cui gli abitati si dispongono.
Caratteristici sono inoltre i portici, gli avvolti. Si può pensare, ad esempio, anche a quelli che immettono nei paesi, come gli accessi a Lisignago, Verla e Palù.
Il portico sopporta il peso delle costruzioni, le sostiene e dà loro compattezza. In passato aveva funzioni anche di servizio per il lavoro. Infatti, in una civiltà tradizionalmente contadina e rurale, era molto importante proteggere dall’inclemenza del tempo sotto i portici o nei cortili interni i carri e gli animali da soma. Oggi assistiamo a un cambiamento di destinazione, perché la casa che un tempo era costruita in funzione dell’attività e della vita agricola, non assolve più tali compiti. Attualmente, una lettura funzionale del paesaggio insediativo porta a rilevare la mutata logica funzionale e il diverso genere di vita.



Le Schede

Si presentano due schede riferite alle attività tradizionali della valle, valutate secondo componenti ambientali, sociali, culturali e tecnologiche. Tali attività hanno influito sul modellamento di un paesaggio tipicamente rurale (sponda destra) e industriale (sponda sinistra).

 
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PADRE REMO STENICO


STORICO-AUTORE DI MOLTI LIBRI SUL COMUNE DI GIOVO

 

La chiesa di S. Giorgio di Giovo



Motivo della sua presenza

Per far capire il motivo della presenza di una chiesetta in mezzo alla campagna, o su un colle, quello di San Floriano, dobbiamo dire due parole circa l’organizzazione ecclesiastica sul territorio.
Nella valle dell’Avisio verso l’anno Mille, e anche prima, vi erano certamente quattro centri pastorali, chiamati pievi o parrocchie con la rispettiva chiesa, detta chiesa matrice: Giovo, Cembra, Cavalese, Vigo di Fassa.
A queste facevano riferimento tutti i nuclei abitati della valle dove vi erano cristiani: per soddisfare il precetto festivo, per il battesimo, e per gli altri Sacramenti, per la sepoltura, per le processioni. Sono queste che daranno poi vita alle chiese ed alle comunità cristiane dei singoli paesi.
A Giovo tutti i cristiani della pieve (comune) dovevano recarsi quindi in antico all’unica chiesa esistente, quella pievana ubicata nella Valle dei Molini: la pieve di Giovo. Essa era quasi equidistante dai nuclei abitati di Palù, Ville, Valternigo; un pò più distante per Ceola e Mosana; a questa chiesa matrice dovevano fare riferimento anche i paesi di Lavis e Pressano.
Le singole frazioni si costruirono nel tempo una chiesa, che poi gradatamente divenne indipendente da quella pievana. A Giovo attualmente vi sono queste chiese, oltre quelle di S. Floriano e di s. Giorgio:
- Chiesa pievana presso Verla (1766-1779). In mezzo al paese quella detta di s. Antonio (1733). S. Floriano e s. Giorgio
- A Ville di Giovo (1428): altra nel 1880-1884 (a Vesin): parrocchia nel 1919.
- A Ceola (1471): quella nuova nel 1905;; parrocchia 1987.
- A Palù: /1630) quella nuova nel 1894-1898; parrocchia nel 1946.- A Mosana: chiesa dell’Addolorata costruita nel 1726.- A Valternigo: cappella privata nel 1787; chiesa di s. Romedio nel 1896.

Della pieve di Giovo facevano parte anche i paesi di Lavis, Pressano e Faedo: questa era una grande comunità, chiamata “comunitas Zovi et Faedi”. In seguito Giovo si spartirono il territorio e nacquero due comuni distinti, noi qui però ci riferiamo solo alla parte ecclesiastica.
Verso il 1200/1300 sul territorio di Giovo, oltre alla chiesa pievana (chiesa matrice) nella Valle dei Molini, ne esistevano altre due: quella di S. Floriano e questa di S. Giorgio che appartenevano all’intera comunità religiosa e civile, ma non facevano parte di nessuna delle frazioni.
Queste due chiese erano amministrate da amministratori laici che dovevano render conto anche all’amministrazione comunale, soprattutto per la manutenzione.
Ora vedremo quale è il motivo della presenza di queste due chiese.
Darò alcune notizie relative a quella di s. Giorgio.



NOTIZIE STORICHE

Giorgio in greco vuol dire contadino,agricoltore. La chiesa sorse come voto in mezzo alla campagna nella località detta ora San Zorzi vicino a Mosana a quota m 469.
L’agricoltura in genere dava da vivere praticamente a tutte le famiglie: era l’unica risorsa per tutti e per questo scelsero un patrono che potesse difendere questa campagna, unica fonte di vita, dai pericoli derivanti dalla siccità, dalla troppa pioggia, dalle frane, dai bruchi, dalla grandine, dalle brinate.
La prima notizia documentata dell’esistenza di questa chiesa risale al 1309. in quell’anno in questo posto chiamato San Giorgio è stato stilato un documento notarile contenente un atto di affittanza: “Il 23 gennaio 1309, davanti alla chiesa del beato santo Giorgio, cappella di santa Maria di Giovo”... ecc. (da qui si capisce che non era una chiesa pievana e ci dà l’idea dell’antichità di questo posto dedicato al culto di San Giorgio!)
Inoltre, a partire dal 1370 troviamo infatti testimonianze degli amministratori di questa chiesa.
Questa chiesa veniva amministrata con delle offerte personali, molte volte provenienti dai lasciti testamentari. Ne abbiamo uno caratteristico del 1375 dove Iechele dalla Zarga di Lavis, erede della sorella Adeleita, dovette impegnarsi con documento notarile a rendere operativa la volontà del testamento: ella gli aveva lasciato l’obbligo di fornire a questa chiesa una bigoncia di vino bianco per sei anni nel giorno di San Giorgio (23 aprile) ed insieme uno staio di frumento trasformato in pane. Il documento fu stilato presso la chiesa di s. Giorgio, sotto un ciliegio. Queste erano le distribuzioni del pane e del vino che avvenivano anche in altre occasioni anche ad esempio dopo i funerali.

Vi erano inoltre donazioni continue delle quali gli amministratori che si susseguivano nel tempo, rendevano conto ogni anno.

Nel 1538 un documento parla dell’affittanza di un bene, un vigneto con bosco di circa 16 mila metri quadrati localizzata a Sant Iori.
Un altro documento riguarda un vigneto di circa 600 metri quadrati: l’affitto rendeva 6 brente e mezza di vino bianco e 11 carantani. Inoltre coloro che si assumevano l’obbligo della coltivazione dovevano poi versare qualche cosa di affitto e inoltre erano obbligati – erano due uomini di Palù - a suonare l’Ave Maria tutti i giorni all’alba e al crepuscolo ed inoltre dovevano mantenere tutte le notti una lampada ad olio a loro spese per illuminare la chiesa. L’affittanza si ripete nel 1578 con gli stessi obblighi.


Attività pastorale


A s. Giorgio la comunità di Giovo ricorreva quando vi era bisogno di aiuto per la campagna. Ogni anno il 23 aprile si celebrava la festa del Santo il 23.
Qui arrivavano molte processioni da tanti paesi anche fuori da Giovo: abbiamo notizie di processioni da Cembra, da Lavis, da Pressano, da Albiano. Qui si giungeva per pregare San Giorgio affinché combattesse i vermi nocivi che infestavano le campagne.
Anche da Meano venivano qui in processione per ottenere protezione dal Santo, addirittura qualcuno dice che gli anziani di Meano, non potendo venire fin qui, si fermavano sull’altra sponda per ascoltare la santa Messa che era annunciata dalla campanella che c’era sulla chiesa.
Abbiamo anche la documentazione di sei matrimoni celebrati a S. Giorgio tra il 1680 e il 1727.




La Madonna e le campane di s. Giorgio

Abbiamo anche notizie di una statua della Madonna che era posta in una nicchia laterale della chiesa che viene ricordata nella visita pastorale del 1710.
Questa Madonna dopo la soppressione è stata portata a Palù; in seguito è stata collocata in un capitello vicino alla chiesetta dal quale è stata rubata.
Nel 1538 come vedemmo, vi era l’obbligo di suonare l’Ave Maria al mattino e alla sera. Si dice che la campanella di s. Giorgio sia stata portata a Palù: sarebbe quella fusa nel 1684, anche se sulla stessa non ci sono simboli che si riferiscono a s. Giorgio. La campana non era collocata su un campanile a vela (come alcuni anni fa avevo pubblicato) ma era appesa sull’apertura che c’è in cima alla facciata in dialetto chiamato “bocher”, fissata ad una trave di legno


Gli eremiti a s. Giorgio

L’eremita è una persona che si ritira a vivere in solitudine, dedicandosi alla preghiera, alla meditazione e alla penitenza per raggiungere una più profonda comunione con Dio.
La chiesa non è stata di certo costruita per un eremita ma l’remita prese occasione dell’esisitenza di questa chiesa per fermarsi qui. Nel 1578 si parla di un terreno in parte vignato e in parte boschivo con dentro una casetta non molto distante dalla chiesa di s. Giorgio, proprietà di essa affittato a Paolo Pellegrini da Palù. Questa casetta era la caratterista costruzione delle campagne (qui i Sanzorzi) detta in dialetto Bait, che serviva per riporre attrezzi, per ripararsi dalla pioggia de dal freddo l’inverno nel consumare il misero pranzo, portato sul posto dalle loro mogli.
Nel 1675 si parla di riparare l’abitazione dell’eremita da parte del Comune. Il primo eremita fu infatti presente in quell’anno: Domenico Arnoldi da Denno.
Se l’eremita era anche sacerdote, egli celebrava la S. Messa ogni giorno nella detta chiesetta, aiutava il parroco nella catechesi, nelle processioni e nei funerali.
Gli eremi furono soppressi dall’imperatore d’Austria nel 1782.



Quando è stata edificata la chiesa di cui stiamo parlando?

Riscontriamo il toponimo san Giorgio in un documento del 1244.
Il primo documento, come abbiamo visto precedentemente, è del 1309 e dice che in tale anno già esisteva una chiesa chiamata di s. Giorgio, cappella della pieve di Giovo. Tale documento fu stilato dal notaio “ante ecclesiam beati sancti Geori, de capela vero sancte Marie de Zovo”. Non era un capitello, ma una vera chiesa dove si poteva celebrare la Messa e che aveva i suoi amministratori.
Nel 1464 notiamo l’acquisto di beni stabili da parte della chiesa di s. Giorgio: un prato con bosco, un vigneto con bosco. Forse si preparavano i fondi per la nuova chiesa?
Siamo pure a conoscenza che nella seconda metà del quattrocento si stavano costruendo altre due chiese: S. Felice a Pressano nel 1464 e Sant’Agata a Faedo nel 1496-1513.

Credo che anche questa attuale chiesa di s. Giorgio risalga alla seconda metà del secolo XV, all’incirca attorno al 1486. Interessante la serie di simboli degli scalpellini, che riscontriamo su queste tre chiese: sono il marchio dei diversi addetti alla preparazione delle pietre che richiedevano un lavoro di precisione, come sono le pietre degli sguanci delle finestre, dell’arco Santo, del portale d’entrata.
La chiesa è orientata quasi in modo perfetto.
Questa chiesa sicuramente non poteva essere la prima chiesa pievana sorta sul Comune di Giovo: non si scorge da nessun abitato di Giovo ed è sempre detta cappella della pieve di Giovo.



Sconsacrazione

Nel 1782 l’imperatore Giuseppe II eliminò e proibì la vita eremitica: tutti gli eremiti anche quello di Giovo dovettero abbandonare gli eremi e così la chiesetta di S.Giorgio rimase senza custode.
Tre anni dopo, nel 1785, la stessa autorità politica ordinò di svuotare le chiesette votive, che non servivano per la cura d’anime, della loro suppellettile per finanziare la scuola. Ordinò pure di alienare anche gli stessi immobili. Il comune era disposto ad abbandonare la chiesetta di s. Giorgio e salvare invece quella di S. Floriano.
Nel 1803 la popolazione di Palù chiese di poter rifabbricare e riaprire la chiesa di S. Giorgio: la risposta del governo fu negativa ed essa andò pian piano verso la rovina, rimanendo così oggetto di sfruttamento e di furti che l’hanno ridotta in condizioni pietose.
Fortunatamente, una famiglia di Palù, quella di Giorgio e Bruna Moser, si interessò a questi resti nei quali si intravedeva una costruzione assai elegante, scattando molte fotografie e riuscendo a stampare un fascicolo contenente le notizie relative a questo gioiello d’arte gotica.
Grazie a tale pubblicazione, l’ente pubblico nel 1984 si interessò alla pulitura della chiesa e poi dal 1985 al 1986 restaurò questa chiesetta, riportandola alla primitiva struttura e le venne donato l’aspetto che vediamo oggi.


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DANIELA MONAUNI

LAUREANDA SCIENZE DEI BENI CULTURALI


IL VINO E L’UVA NELLA SIMBOLOGIA RELIGIOSA




“…nella storia dell’arte UVA e VINO, nella loro accezione simbolica sono stati più volte legati ai contesti critici come l’Ultima Cena, le nozze di Cana, la cena di Emmaus, o a scene dell’antico testamento, come l’ebbrezza di Noè e il sacrificio di Melchisedec.
Anche le chiese della nostra valle offrono qualche esempio in merito a questi argomenti e ad aspetti legati al mondo contadino.”


ANTICO TESTAMENTO

Prima dell’episodio dell’ebbrezza di Noè, il vino non è mai citato; poi con di significato saggezza, prosperità e pace compare per più di un centinaio di volte.

Esempio 1 )

Questo bassorilievo, magistralmente te realizzato, ci racconta della irriverenza di Cana che, sollevando la tenda oltre la quale giace il padre ubriaco, coinvolge i fratelli in una azione irrispettosa di derisione.

Pierangelo Stefani. Il sacrificio di Melchisedec – 1948 – affresco – chiesa nuova di Albiano

Nella parete di fondo dell’abside, a sinistra, l’artista illustra l’episodio in cui il sommo sacerdote dell’ Altissimo, Melchisedec, benedice Abramo vittorioso dopo una battaglia e compie un’oblazione “ pura e semplice ” con pane e vino, segui dell’ Eucaristia.
Melchisedec è considerato l’archetipo che precede Cristo nella funzione sacerdotale.
Le figure dei personaggi, la remusa parallelepipeda con l’offerta e la vegetazione, sono tratteggiate con estrema linearità e rese con colori brillanti contro uno sfondo dominato da montagne verdi.


NUOVO TESTAMENTO

In questo contesto il vino è segno del sangue di Gesù e trova il culmine nell’Ultima Cena, significando, quindi, il sacrificio di Cristo per la redenzione umana.
Il vino compare nel primo miracolo ( Nozze di Cana ) e al termine della vita terrena del Salvatore.
( Ultima Cena e Cena di Emmaus )

Esempio 2 )


ULTIMA CENA

1) Maestro di Lisignago – Ultima Cena – 6°/8° decennio del XV sec. - affresco - Lisignago – Chiesa di S. Leonardo


La scena è solenne e narrativa con personaggi disposti frontalmente intorno a un tavolo rettangolare, secondo la tradizione medievale.



Gli Apostoli sono identificabili attraverso i nomi posti sulla arnia e, a sorpresa, comprendono S. Paolo al posto di Giuda Taddeo.
Tutti indossano lunghe vesti che compaiono anche sotto la tovaglia, assumendo stature gigantesche, soprattutto nei confronti di Giuda.
È illustrato il momento successivo all’annuncio del traditore “…è colui al quale darò un pezzo di pane inzuppato. ” ( Giov. 13; 26 )
Gesù, infatti, sta allungando il braccio destro verso Giuda, Giovanni si piega sul petto del Maestro e Pietro alza le braccia per lo sgomento.

La figura del traditore è annotata in modo assolutamente negativo: isolato e unico seduto anteriormente al tavolo, è ritratto di profilo con barba e capelli rossicci.
Davanti alla sua bocca – oggi appena leggibile – alleggia uno spiritello nero perché “… appena ebbe preso quel pezzo di pane, Satana entro in lui.” ( Giovanni 13; 27 )

Il tavolo, coperto da una tovaglia bianca adeguatamente decorata a diamantina, è imbandito alla maniera tardo quattrocentesca.
Davanti a Cristo sono dipinti un calice dorato con patena ed il pane, per sottolineare il significato eucaristico della Cena.
È interessante notare che due elementi presenti sulla mensa, i bicchieri di vetro (krautstrunk) e dolci di pane (bretzel) essendo legati alla cultura sud-tirolese, possono rivelare l’origine dell’artista, recentemente definito “ Maestro di Fisiguay”.


2) Autore ignoto – Ultima Cena – 1ª metà 1500 – affresco – Cembra Chiesa di S. Pietro


È uno dei 24 quadri che compongono la “ Bibbia dei poveri ”.
Purtroppo, questa scena appare molto deteriorata e, nella parte inferiore, quasi incomprensibile.
È narrato il momento in cui Gesù sta benedicendo pane e vino. Il Maestro siede frontalmente fra sette apostoli, mentre gli altri cinque sono scarsamente leggibili.

Come in tutto il ciclo, le figure sono rese con colori intensi e luminosi che sembrano smaterializzare la consistenza stessa


3) Leonardo Campochiesa – Ultima Cena – 1858 – olio su tela – Verla – Chiesa parrocchiale


In questa tela di notevole dimensioni, l’artista propone in una scena maestosa e solenne, il momento in cui Cristo distribuisce il pane agli Apostoli, dopo averlo consacrato.
Sul tavolo, davanti a lui, sono posti in evidenza una raffinatissima brocca col vino ed un piatto contenente ancora sette fette di pane (qui il particolare).
Gli apostoli, dipinti in varie pose, partecipano con intensità a questo momento sacrale e dai loro volti, veri ritratti, traspaiono sentimenti di umiltà, mitezza e serenità. Tutti sono coinvolti dall’agire di Cristo…tutti, tranne l’apostolo seduto in basso a destra. Il suo sguardo sembra dirigesi fuori dal quadro e ricorrere tormenti personali. Egli veste abiti scuri, ha capelli e barba neri (vedi foto) e, nella mano sinistra appoggiata sul ginocchio, stringe il sacchetto con le trenta monete del tradimento…
L’ambiente, reso prospetticamente, è un interno chiuso sul fondo da tre finestrini (coperti da spesse tende) e sormontati da lunette; un pallido chiarore lunare rischiara quella più a destra.
Centralmente, sopra la mensa, pende un elaborato lampadario in ferro battuto, ma la luce che tutto rischiara e avvolge gli Apostoli, le suppellettili e la tovaglia bianchissima, si sprigiona da Cristo stesso: è la luce spirituale !
Sul tavolo, anteriormente, proprio in direzione del riguardante, un piatto contenente una porzione di pane (vino ved. foto) e uno sgabello vuoto, vogliasi forse invitare ogni osservatore ad entrare davvero in questa scena che si ripete miracolosamente nel sacrificio eucaristico di ogni Santa Messa.


CENA DI EMMAUS

Questo argomento non è presente nelle chiese considerate: come esempio possiamo citare un’opera situata nel refettorio dei Padri Francescani di S. Bernardino a Trento .
In basso al centro compare la scritta: “ Francesco figlio di Giacomo – sec. 16° ”.
Cristo ripete il miracolo dell’Ultima Cena alla presenza di due discepoli, di un sciita e di un oste. A sinistra è ritratto il committente con la famiglia.


L’uva come elemento iconografico decorativo


  1. Chiesa parrocchiale di Verla - 1768 / 69 – Sommità arco principale stucche

Raffinati grappoli e pampini dorati incorniciano una scritta relativa al libro di Ester ( Antico Testamento )
Pose il diadema del regno sul suo capo e la fece regina.”
( Ester, ebrea, diventata regina dei Persiani, impedi lo sterminio del suo popolo.)
Queste decorazioni sottolineano il significato regale dell’episodio citato.

  1. chiesa di S. Maria – Piazzo – altare laterale destro – fine ‘600 – Bottega scultore di Sover

L’altare, scolpito e dorato, presenta cornice e fasce laterali impreziosite da un decoro con pampini e grappoli.


  1. chiesa di S. Nicolò – Svignano – altare maggiore – Giovanni Maria Betta – anni 50 del 1700

Colonne ornatissime con viticci, pampini e grappoli dorati a motivo spiraliforme, abbelliscono questo altare ligneo barocco.
Sulla porticina del tabernacolo campeggia il calice con l’ostia sacra; lateralmente, tralci di pampini dorati e grappoli d’uva resi realisticamente nei colori, sottolineano il significato dell’Eucarestia.


MADONNA DELL’UVA

Questo motivo iconografico, ricorda il significato del sacrificio di Cristo: Maria porge al Figlio un grappolo d’uva, simbolo del vino, cioè del sangue che lui verserà per la redenzione del mondo.

Chiesa di Santa Maria – Piazzo – Madonna dell’uva - 2ª metà XV sec. – statua lignea.

La statua lignea dipinta è completata da un’elegante base esagonale decorata a trafori.
Maria, dal viso materno di delicata bellezza incorniciato da capelli neri, veste un manto azzurro sopra un abito tonalità rosea.
Ella regge delicatamente il Bimbo sulle ginocchia e, con una mano, gli porge un grappolo d’uva.
Dal volto tenero della Madre, dal suo sguardo quasi assorto, traspare la consapevolezza del mistero a cui allude quel grappolo, cioè alla Passione e alla Morte di suo figlio.

Fino al 1889, questa sacra effige veniva portata in processione in presenza di gravi calamità e solo con il consenso degli antichi Comuni della Valle: Segonzano, Sevignano, Lisignago, Cembra e Faver.

È particolare la devozione che da più secoli anima i fedeli di Cembra che, all’alba della prima domenica dopo il 2 luglio, raggiungono in processione la chiesa di Piazzo per un voto. Questa processione votiva è documentata per iscritto dal 1726, ma si crede che risalga a moltissimi anni prima, quando “…il 2 luglio si scatenò una burrasca con violenti temporali che terminò con la caduta della neve, compromettendo tutto il raccolto.”
La statua lignea, che ha assunto nei secoli un valore di protezione contro le avversità naturali, ci rivela la semplice religiosità dei nostri avi che con tenacia realizzarono campi terrazzati sui ripidi fianchi della valle e, ai nostri giorni, si carica ancora di un significato di fede per quelle persone che la ricordano per ottenere un buon raccolto…una buona vendemmia.


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MARCO LARENTIS

SOMMELIER



La schiava: vitigno autoctono con grande dignità storica.





La schiava è una delle varietà citate antecedentemente all'epoca medioevale trovando la documentata realtà di rappresentare un modello viticolo.

Correttamente, nell'esaminare il vitigno, si deve considerare un'intera famiglia con caratteristiche ampelografiche del tutto distinte fra le diverse varietà e con altrettanti nomi a loro connotazione (per esempio Trollinger in Germania e Vernatsch in Alto Adige).

Nel nostro territorio si devono prendere in considerazione, tutte ben rappresentate e inserite ufficialmente nel Registro Nazionale delle varietà di vite, la Schiava Gentile, la Schiava Grigia e la Schiava Grossa.
Coltivata tradizionalmente a pergola trentina ancor più si lega indissolubilmente al territorio ed ad ambienti e climi montani.
Un tempo, non molto remoto, era molto diffusa e prodotta in grandi quantità ma recentemente è stata frequentemente sostituita da varietà più alla moda.

Certamente parlare della schiava, importata ufficialmente dal vicino Alto Adige, potrebbe sembrare un paradosso pensando che ha sempre rappresentato un vino gregario.
Gregario perché schiavizzata (vite sclava), perché coltivata in zone in cui l'interesse era più rivolto all'economia che alla qualità, perché ha sempre rappresentato il vino degli agricoltori, perché serviva a dissetare durante i duri lavori di campagna, perché rappresentava il bere quotidiano.

Ragioni tutte che sono suffragate dalle consolidate tradizioni che andavano a rappresentare la schiava come un vino privo di note caratteriali: non doveva spiacere a nessuno e doveva soddisfare l'esigenza di un accompagnamento semplice e basato su d'alimentazione di prodotti del territorio.
Con la sua vinosità e piacevole asprezza, con colori non certamente carichi, rappresentava un modo di rappresentare il vino nella sua realtà essenziale.
Nel consumo storico vissuto frequentemente nella durezza di quei periodi, rappresentava un modo di annegare il vivere quotidiano spesso difficile.

In questi ultimi anni si è assistito ad un cambio di regime e di rotta.
Inizialmente con il riconoscimento del disciplinare a DOC Trentino e successivamente con l'accreditamento, accompagnato anche dai nostri vicini di casa, con la DOC Caldaro.

In conseguenza a tali mutamenti e supportata da una sempre maggior richiesta di vini di qualità, coniugata ad una maggior disponibilità anche economica ed ad una minor richiesta del bere tradizionale, oggi rappresenta un'uva certamente prolifica, sempre disposta a garantire reddito ma ad ottenere in zone vocate, applicando migliori selezioni e sistemazione degli impianti, espressioni non solo del territorio ma anche pregevoli qualità di contenuto tecnico ed organolettico.

Da qui la soluzione finale è subito fatta.

Oggi la schiava è antico e lontano parente di quella dei nostri avi.
Certamente ha guadagnato in costanza qualitativa, in serbevolezza, in eleganza ed anche in condivisi apprezzamenti.
Non solo vino da merenda ed un bere disimpegnato ma anche interprete di corretti abbinamenti rispettosi delle tradizioni gastronomiche.
Con toni di mandorla amara, di piacevole vinosità coniugati a sentori di frutta giovane di bosco ben si allineano ad un colore rosso allegro e giovane eccezionalmente beverino.
Ed è diventato nel bere consapevole anche un indice gradito la sua non particolare alcolicità: piacevole, non inibente ma ugualmente socializzante.

In conclusione la schiava di moderna concezione, o di seconda generazione, rappresenta un equilibrato bere non condizionata da riconoscimenti che lasciano il tempo che trovano, e si colloca in quella piacevole e divina abitudine del bere quotidiano, forse anche semplice ma gradito sempre più alla maggioranza.

Unendo il sacro al profano: dalla campagna alla tavola e perché no alla cura dell'uva (Traubenkur) per defatigarsi dal lavoro sia fisico che intellettuale?

Grandi spazi ed orizzonti nuovi per uno storico vitigno!



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FILODRAMMATICA VERLA


SAN GIORGIO E IL DRAGO”

-COPIONE-